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Chi è Genny?

Genny è un mio carissimo amico e collaboratore, ma vi invito a leggere la sua storia.

Venire al mondo con un corpo menomato, con un fisico che non svilupperà quelle capacità e funzionalità che sono peculiari nel corpo di un uomo così detto normale, condannano il menomato a una vita diversa. In particolare, per chi, come me, ha avuto la sfortuna di avere il cervelletto lesionato durante il parto, le probabilità di poter vivere un’esistenza normale non sono molto alte.
Io sono nato nel 1972, in un’epoca in cui la scienza e la tecnologia in certi campi non avevano ancora raggiunto i livelli incredibili dei nostri giorni. Soprattutto la tecnologia non era alla portata di tutti. Certo, l’uomo era già stato sulla luna, ma il Personal Computer era solo un sogno di qualche ragazzo stravagante, che, dall’altra parte del mondo armeggiava con transistor e quant’altro nel garage di casa sua. Chissà se quel ragazzo si rendeva conto del valore enorme che avrebbe avuto la sua invenzione un ventennio dopo nella vita di miliardi di persone?
I dottori diagnosticarono il mio handicap come tetra-paresi spastica e dissero ai miei genitori che non c’erano cure o interventi chirurgici che potessero rimediare al danno che quel parto difficile mi aveva procurato. Né in Italia, né in qualunque altra parte del mondo. L’unico consiglio che diedero fu quello di farmi fare tanta fisioterapia, solo così avrei potuto ottenere qualche progresso.
Da quel momento cominciò la mia lotta per conquistare un’esistenza dignitosa, per ottenere quel minimo di autosufficienza che mi consentisse di non restare emarginato. La prima piccola, grande conquista fu quando, all’età di 2 anni, cominciai a mantenermi seduto. Il traguardo successivo lo raggiunsi quando imparai ad andare gattoni. Infine, il traguardo più ambito: avevo già 10 anni quando cominciai a muovere i primi passi. Il lavoro delle fisioterapiste aveva dato i suoi frutti. Un lavoro lento, ma costante, fatto di esercizi semplici e talvolta noiosi, ma che erano serviti ad impostare degli schemi di movimento utili ad educare il corpo a muoversi il più correttamente possibile, imparando a superare gli ostacoli posti dal mio handicap.
Riuscire a camminare da solo era stata di sicuro la mia conquista più importante, ma nel frattempo avevo raggiunto tanti altri piccoli traguardi. Avevo imparato a mangiare da solo, a scrivere, a vestirmi e svestirmi almeno parzialmente. Ero capace di giocare a pallone, a biglie, a figurine, a bigliardino. Ognuna di queste attività, però, futili alcune, se si vuole, o di vitale importanza altre, mi costringevano a trovare dei “trucchi”, degli schemi di movimento, delle posizioni particolari che mi consentissero di recuperare il controllo del mio corpo per costringerlo a fare ciò che la mente, con fatica, gli ordinava. In questo modo, tutto diventava, in maniera del tutto incosciente, un continuo sfidare le mie capacità, una costante ricerca di strategie alternative che mi permettessero di centrare l’obbiettivo. E non aveva molta importanza se il traguardo fosse di riuscire a portare il cucchiaio alla bocca o bocciare con la mia biglia quella dell’avversario, il mio impegno profuso per riuscire a compiere gesti che per gli altri erano del tutto naturali non mutava di intensità.
In questo modo scoprì, ad esempio, che per riuscire a scrivere o a disegnare dovevo spostare tutto il peso del corpo sulla penna. M’inventai, così, una posizione alquanto bizzarra, ma molto efficiente, per riuscire nel mio intento: mi sistemavo con il quadernone sul pavimento, accovacciato sui ginocchi, con la schiena ricurva in avanti nell’intento di proiettare tutto il peso e tutte le energie sulla penna, tentando di fare meno sbavature possibili. Certo, insieme agli insegnanti e ai terapisti, tentammo di adottare altre soluzioni che fossero più consone alla naturale postura dello scrivano e soprattutto meno stancanti. Provammo allora ad abbassare il banco, alzare la sedia, applicare dei fermi per fissare bene i quaderni sul banco. Tutte buone soluzioni, che non davano, però, risultati migliori o simili a quelli ottenuti quando scrivevo o disegnavo accovacciato a terra. E il bello è che a me scrivere piaceva molto.
Riuscivo a scrivere, è vero, ma facevo una gran fatica. E per quanto io provassi a tener duro, a non sentirla quella fatica, ero consapevole che non potevo andare avanti in quel modo, non ero in grado di esprimere tutte le mie potenzialità e questo mi frustava. Anche perché non avevo solo il problema della fatica da risolvere, ce n’era un altro al quale io non potevo trovare soluzioni: il tempo.
Il tempo ti frega sempre. Il tempo è sempre poco anche per i normodotati, figurarsi per uno come me che poteva andare ad una velocità tre volte inferiore. Allora ci voleva un’idea, qualcosa che portasse un cambiamento radicale. E finalmente un giorno a qualcuno balenò in testa l’idea di mettermi davanti ad un computer. Era la svolta.
I personal computer avevano fatto la loro comparsa sul mercato italiano nei primi anni ’80. La leggendaria casa produttrice Commodore ne aveva lanciato diversi tipi e a casa mia arrivò il modello più gettonato: il mitico C64. Per un bambino di 13-14 anni l’acquisto di un PC significava soprattutto avere a disposizione un’intera galleria di nuovi giochi, per il sottoscritto, invece, voleva dire molto di più. Finalmente potevo scrivere tutto ciò che volevo, stando semplicemente seduto alla scrivania. Niente più mal di schiena e crampi alle ginocchia. Niente più penne spezzate, fogli bucati e calli alle mani. Ora me ne potevo stare comodamente seduto e, lettera dopo lettera, parola dopo parola, comporre i miei temi, i miei riassunti, le mie relazioni senza dovermi risparmiare, senza l’obbligo di dover essere sintetico sennò poi la schiena, le ginocchia e i calli alle mani iniziano a far troppo male.
La tecnica che adottai per digitare era semplice: la mano destra teneva il più possibile ferma l’altra mano, tiravo fuori il mio indice sinistro e con questo pigiavo sui tasti. Sbagliavo molto, certo, ma potevo cancellare e riscrivere tutte le volte che volevo. Questo era un grossissimo vantaggio che mi regalava il computer e che, invece, la macchina per scrivere non poteva offrirmi, motivo per cui mi era sempre risultato poco agevole usarla.
Naturalmente, neanch’io mi lasciavo sfuggire l’aspetto ludico del PC. Cominciai ad appassionarmi ai videogiochi, scoprendo che anche quelli erano uno strumento per prendermi una piccola rivincita “virtuale”. Perché se nella realtà non potevo essere certo un calciatore provetto, nei videogiochi che simulavano i miei sport preferiti divenni bravissimo ed ero in grado di sfidare chiunque senza aver paura di partire battuto.
Nacque così la mia passione per il computer, questa sorta di simbiosi che ho creato con questa macchina tanto speciale, che ormai considero un prolungamento di me stesso. Il PC ha accompagnato gran parte della mia vita e grazie a lui la qualità della mia esistenza è migliorata moltissimo, tanto che non saprei immaginarla senza questo prezioso strumento. In realtà dovrei ringraziare chi ha pensato di costruirla questa macchina e chi ne ha reso possibile tutte le innumerevoli evoluzioni. Dovrei essere grato a quel ragazzo americano che trent’anni fa circa giocava con dei transistor nel garage di casa sua; dovrei ringraziare il signor Commodore, gli ingegneri della IBM, il tanto odiato Bill Gates e tutti quelli che lavorano al sistema operativo Windows e ai pacchetti applicativi Microsoft, che si sono inventati il mouse virtuale . In particolare dovrei ringraziare chi, alla fine degli anni ’90, ha avuto la geniale intuizione di collegare due computer a migliaia di chilometri di distanza tramite linea telefonica.
La nascita di internet, la rete delle reti, è stata, infatti, la seconda grande svolta della mia vita.
Internet, il web, la chat mi offrivano la possibilità di entrare in contatto con centinaia, se non migliaia di persone senza nemmeno uscire di casa. Soprattutto avevo l’occasione di farmi conoscere da altre persone, di presentare al pubblico ciò che in tutti quegli anni avevo imparato a fare col PC.
Sentivo che internet sarebbe stata una delle invenzioni più importanti del XX secolo, una innovazione talmente grande da produrre un’autentica rivoluzione nella comunicazione mediatica ed io dovevo partecipare a quella rivoluzione, anche a costo di trascurare i miei studi di sociologia. Quindi non c’era tempo da perdere, dovevo al più presto procurarmi la tecnologia e le conoscenze adatte per entrare in rete. Subito mi venne in mente che potevo finalmente realizzare un mio vecchio sogno: pubblicare un giornalino. Ed ora, per giunta, potevo farlo da solo.
Diedi vita così ad “Alternative On Line”, un sito che trattava di attualità e cultura generale. Nel primo numero feci tutto da solo: raccolsi il materiale, scrissi qualche articolo e impaginai il tutto. Addirittura ero riuscito a convincere due miei amici imprenditori a comprare spazi pubblicitari sul mio sito. In quel modo anche le spese per attivare l’abbonamento per la connessione ad internet erano state coperte. Non so dire se AOL ebbe un buon successo di pubblico, di sicuro era seguito ed apprezzato nella piccola cerchia dei miei amici, tanto che alcuni di loro si offrirono di darmi una mano nel redigere i numeri successivi.
L’esperienza di AOL durò un anno, ed anche se magari il giornale non lo leggeva nessuno (o quasi), quell’anno fu ricchissimo di belle esperienza, che fecero nascere in me la consapevolezza che nel campo del webdesigning avrei potuto trovare la mia giusta dimensione.
Avevo scoperto che le e-mail, ad esempio, erano utilissime per stare in contatto con chi collaborava con me, potendo ricevere e inviare il materiale che serviva per redigere il giornale in pochi minuti.
Mi ero lasciato affascinare dalla chat e dalla possibilità che mi dava l’occasione di conoscere tantissima gente senza dovermi preoccupare dell’impatto che avrebbe avuto il mio handicap su coloro con cui cercavo di intraprendere una conversazione. Infatti, in quella particolare dimensione dove l’immagine e la voce venivano annullate, io ero davvero uno come tanti, forse solo un po’ più lento nel digitare.
Chattare, però, non era affatto semplice. Nemmeno tutti quegli anni passati al PC mi avevano fatto acquisire la velocità sufficiente per seguire una conversazione, senza contare che spesso dovevo seguirne più di una. Ancora una volta mi fregava il tempo.
Come al solito non mi diedi per vinto. Non sono il tipo che rinuncia tanto facilmente ad una cosa tanto bella ed importante. Negli anni avevo già dovuto cambiare la mia tecnica di digitazione varie volte, soprattutto il passaggio dal C64 alla tastiera del compatibile IBM era stato molto complesso. Nei nuovi PC molte funzioni erano attivabili premendo due tasti contemporaneamente e solo il mio indice non bastava più. Fu così che iniziai ad aiutarmi con il naso. Ad esempio, per copiare qualcosa i tasti da premere erano CTRL+C. Quindi per riuscire ad attivare la funzione copia appoggiavo la mano sinistra sul tasto CTRL e col naso davo un colpo sulla C e il gioco era fatto.
Confesso, però, che l’idea di usare il naso non mi allettava molto. Mi vergognavo un po’ nel mostrare agli altri cosa ero costretto a fare pur di riuscire ad attivare certe funzioni o a digitare determinati caratteri. Anche per questo avevo sempre scartato l’idea di abbandonare l’uso dell’indice per adottare una tecnica che si avvalesse esclusivamente dell’ausilio del naso: mi vergognavo come un ladro. L’amore per la chat e la voglia irrefrenabile di comunicare e conoscere nuove persone mi diedero il coraggio per superare ogni mia remora e affrontare quella nuova sfida. Non ci volle molto a capire che l’uso del naso mi rendeva più veloce e la chat era un buonissimo allenamento per perfezionare la tecnica. In pochi mesi riuscii a triplicare la mia velocità di digitazione ed ormai in chat riuscivo a seguire anche due o tre conversazioni contemporaneamente.
Oltre alla scoperta delle chat line e di tutte le potenzialità che mi offriva internet, in quell’anno un altro avvenimento cambiò di parecchio il corso della mia vita. Una sera, scaricando i messaggi di posta elettronica, notai con sorpresa che mi aveva scritto un mio vecchio amico che non vedevo, né sentivo da anni. Avevamo frequentato insieme gli ultimi due anni dell’Istituto Tecnico per Periti Informatici, ma dopo il diploma c’eravamo persi di vista. Nell’e-mail Enrico mi diceva che non s’era fatto più vivo, né con me, né con gli altri ragazzi della classe, perché aveva smarrito l’agendina con tutti i numeri di telefono. Seguitava a raccontare che aveva solo da qualche mese attivato la connessione ad internet e una delle prime cose che aveva cercato sul web erano stati gli indirizzi e-mail dei suoi vecchi amici. Proprio in uno degli elenchi presenti on line aveva trovato il mio e mi aveva scritto immediatamente.
Fui contento di ritrovare Enrico, era stato sempre un buono amico ed in classe era uno di quelli con cui avevo legato di più. Una settimana dopo riuscimmo ad organizzare una rimpatriata con tutti i ragazzi della classe. In quella occasione Enrico mi fece i complimenti per il sito che avevo costruito, l’aveva trovato bello interessante. Poi mi parlò di un suo fratello, che era diventato segretario generale di un’importante organizzazione sindacale autonoma, e mi chiese se volevo costruire il loro sito web.
Da allora sono passati circa quattro anni, io sono ancora il webmaster del sito della FLP Finanze (ex FIALF) e curo molti altri siti. Enrico è un dottore commercialista e lavora insieme all’altro fratello, che è titolare di uno dei più rinomati studi di commercialisti e revisori contabili. Insieme abbiamo creato decine di siti web, uno dei quali, http://www.contribuenti.it/, è divenuto un punto di riferimento per tutti i contribuenti italiani. Tutti i siti sono curati da me e svolgo il mio lavoro standomene tranquillamente a casa. Oltre alla FLP Finanze e allo Studio Carlomagno, si avvalgono della mia collaborazione anche l’Associazione dei Consumatori Adiconsum e l’Associazione Antiusura e Antirachet San Giuseppe Moscati presieduta da Padre Massimo Rastrelli.
Proprio a Padre Rastrelli, alcuni mesi fa, durante un convegno sull’Etica nella Pubblica Amministrazione, ho consegnato una targa con cui il presidente di KRLS Network Italia (un network interprofessionale di cui sono Responsabile del settore Pari Opportunità), Vittorio Carlomagno, gli conferiva la presidenza onoraria del network. In questa occasione ho avuto l’onore ed il piacere di conoscere Raffaele Pinto, presidente dell’ANIPA (Associazione Nazionale Informatici Pubblica Amministrazione), il quale ha subito voluto proporre al Direttivo della sua Associazione il mio nome per la carica di Presidente Onorario, figura non prevista dallo statuto dell’ANIPA e che è stata introdotta per l’occasione. È ovvio che ho accolto con entusiasmo la proposta di Pinto, ma ho ritenuto anche fosse opportuno porre delle condizioni affinché accettassi di ricoprire quella carica: non volevo che il mio incarico fosse solo fittizio, il mio ruolo nell’Associazione doveva essere attivo. Così, in una delle ultime riunioni del direttivo, si è deliberato che l’ANIPA può avere un Presidente Onorario, il quale ha delle mansioni precise e collabora pienamente all’attività dell’Associazione. Tra l’altro, in seguito ad una mia proposta, si è anche previsto la futura organizzazione di corsi di formazione per l’alfabetizzazione informatica di soggetti diversamente abili. E questo è solo un primo piccolissimo successo di questa mia nuova collaborazione, che spero in futuro porterà alla realizzazione di progetti concreti mirati all’inserimento, attraverso l’uso del computer, di persone diversamente abili nel mondo del lavoro.
Non posso nascondere che sono molto fiero di tutto ciò che sono riuscito a costruire in questi quattro anni, anche se mi resta un solo cruccio: non aver conseguito ancora la mia laurea in sociologia. Anche in quello, però, sono vicinissimo al traguardo. Credo, comunque, di non dovermi pentire per aver trascurato l’università, perché ho investito il mio tempo ed il mio impegno per aprire strade importanti e molto percorribili in futuro.
Spesso si sentono dire in giro frasi del tipo: “Dio vede e provvede” oppure “Ciò che la natura toglie da un lato, restituisce da un altro”. Io credo semplicemente che un uomo, quando è in difficoltà, deve aguzzare l’ingegno per uscire da una situazione negativa e ritrovarsi in una più comoda. Ho già raccontato come, sin da piccolo, ho dovuto continuamente inventarmi nuove strategie per poter superare le difficoltà che il mio handicap mi poneva nello svolgere determinate attività. Proprio questo continuo allenamento nella risoluzione di problemi oggettivi ha fatto crescere in me una spiccata vena creativa, che oggi mi torna utilissima nel mio lavoro.
Alla luce di queste brevi considerazioni, sono d’accordo con chi sostiene che un disabile può e deve essere reputato una persona “diversamente abile”, ovvero un individuo che, menomato in certe capacità e/o funzioni, ne ha sviluppate altre, spesso a livelli superiori rispetto alla media. La mia speranza è che questa nuova teoria si diffonda e si affermi nell’opinione pubblica, così da favorire il pieno inserimento delle persone disabili nella vita sociale, abbattendo finalmente l’idea che un handicappato è solo una persona che soffre e che deve essere accudita e assistita. Seguendo questa logica, troppi talenti sono già stati sprecati e sarebbe un delitto lasciare che restino ancora emarginati. Gli sviluppi eclatanti della tecnologia hanno creato i presupposti per risolvere tutti i problemi logistici che c’erano una volta per inserire una persona disabile in un contesto lavorativo. Adesso non ci sono più scuse: il mondo dei normodotati non può più fare a meno di noi!


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